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Vivi respirando – Parte I – Il corpo di dolore

25 Apr

Il concetto di corpo di dolore è stato coniato da Eckhart Tolle, forse l’insegnante vivente principale e più conosciuto del pianeta. Descrive con estrema efficacia una delle parti del “me” come lo abbiamo vissuto fino a prima di riconoscere chi siamo, quella parte che emerge quando per qualche motivo la presenza non è a un livello sufficiente e sembra quasi dirottare il “me”, portandolo a fare cose di cui tendiamo a pentirci molto in fretta.

Eckhart ha mostrato con chiarezza come il nostro perdere lucidità porti al sopravvento di una parte di noi, che lui ha chiamato il corpo di dolore, che sembra avere priorità spesso anche in conflitto con la nostra coscienza e con i nostri pensieri. Vale la pena ricorrere a qualche esempio.

Avete presente quelle situazioni nelle quali sappiamo benissimo che stiamo per dire qualcosa che il nostro interlocutore prenderà male, che sia perché ne soffrirà (e noi ci stiamo di fatto comportando da carnefici) o perché scatenerà in lui sensazioni e reazioni negative (magari ci tiriamo proprio la zappa sui piedi), eppure la diciamo lo stesso?

Un’altra situazione tipica tende a verificarsi durante la guida, nel traffico. Appena qualcuno fa qualcosa che non rientra nel nostro schema “ci si comporta così” si presentano varie versioni del corpo di dolore, da quella che parte in quarta alla minima presunta offesa, come se volesse punire l’automobilista che si è reso colpevole di chissà quale offesa mortale, a quella che si mette a discutere con il guidatore fellone (naturalmente senza che costui possa controbattere né tanto meno sentire quel che ci viene fuori), passando per tutte le varianti possibili fra cui la tradizionale selva di insulti e gestacci, evidenti o soffocati dentro di noi.

Non credo sia difficile osservare come in entrambi gli esempi le reazioni descritte vadano invariabilmente e spesso unicamente a nostro discapito. Abbiamo l’impressione di scaricarci di parte dell’emozione negativa, ma in realtà ci intossichiamo per 100, e se ci va di lusso scarichiamo per 30 o 40. Spesso però ci esponiamo anche a rischi e potremmo perfino causare incidenti, diplomatici nel primo esempio, veri e propri nel secondo.

Il punto cruciale qui è vedere realmente che questo avviene dentro di noi, e a volte prenderne coscienza potrebbe causare uno shock. Il secondo punto è sapere che si tratta di un soggetto (probabilmente in psicologia lo chiameremmo alter-ego) piuttosto folle, che sopravvive dentro di noi solo fino a quando la presenza non è sufficiente a farlo svanire. Un terzo punto di notevole importanza consiste nel riconoscere che il corpo di dolore non è per nulla personale. Nel senso che pur apparendo in modalità a volte peculiari e uniche per ciascuno di noi, si tratta dello stesso “animale” che attraversa me e chiunque altro, che si alimenta di sofferenza individuale e collettiva, le cui caratteristiche, per la versione che tocca ciascuno di noi, possono essere certamente state influenzate dal vissuto personale e familiare.

Come si fa a neutralizzare? Vedendolo. Non accorgendosene con il pensiero, ma percependolo con tutto il nostro essere, fino a che non sia scattato l’”aha” che ce ne separa.

Un piccolo inciso: la rappresentazione letteraria tipica del corpo di dolore è il vampiro. Fino a quando è buio -metaforicamente la mancanza di luce è mancanza di presenza- si scatena; non appena sorge il sole -la presenza torna padrona del campo- si deve andare a rintanare in una tomba. Da un punto di vista cinematografico, invece, il personaggio più adatto a dare l’idea del “mostriciattolo” corpo di dolore è Smigol/Gollum, frutto della fantasia di J.R.R.Tolkien e rappresentato magistralmente al cinema ne “Il Signore degli Anelli”. Come molti ricorderanno, si tratta di un mostro dal comportamento bipolare, estremamente servile e codardo oppure altrettanto aggressivo e vile, ma in ultima analisi guidato solo dalla ricerca di dolore, come se quest’ultimo fosse la sua unica ragione di vita, e che non sopporta di esser colto in fallo, cosa che tipicamente lo rende del tutto impotente.

Vivi respirando – parte I – Il momento presente

17 Apr

Uno dei modi con cui i mistici hanno cercato di farci rientrare in noi stessi e di svegliarci, è stato di farci ritornare al momento presente. Qui preferisco provare ad anticipare le conclusioni per poi argomentarle, anche se costringerà il lettore a un bel salto. Molte delle descrizioni che seguono, infatti, potrebbero essere usate nella terza sezione di questo scritto.

Sempre tenendo a mente che parole e frasi sono cartelli e non la realtà che cercano di richiamare, non diverse da una equazione matematica usata per descrivere un fenomeno fisico, potremmo fare una serie di affermazioni come queste:

  • L’”Io” vero, quello che posso riconoscere adesso, è lo spazio di coscienza consapevole in cui tutto accade;
  • Senza questo “Io”, la realtà non potrebbe nemmeno sorgere, perché la precede e la sottende; un po’ come dire che le parole non potrebbero esistere davvero se non vi fossero orecchie che ne consentissero prima la creazione e poi l’ascolto;
  • Questo spazio di coscienza racchiude in sé tutta la Creazione, ne è al tempo stesso il seme e il frutto;
  • Il dove e il quando in cui tutto accade è… qui e ora. Tutto ciò che posso davvero sapere e confermare al di là di ogni possibile dubbio è osservabile nel momento presente. Il resto è memoria o speculazione, entrambe frutto della mente e perciò non confermabili;
  • Non è possibile trovare alcuna separazione fra le singole componenti della realtà che sperimentiamo, sebbene la mente possa provvedere a inventarsi distinzioni ed etichette adatte allo scopo.

Queste affermazioni possono essere verificate facilmente da ciascuno di noi, dopo aver riconosciuto. Il che non garantisce che la mente non troverà mille argomentazioni per smentirle. Ma come avevo anticipato queste comprensioni non sono né acquisibili con gli strumenti del pensiero né adatte ad essere inserite all’interno di uno schema mentale. Eppure riconnettendoci a noi stessi possiamo provare a controllarne la veridicità con cura, confortati sia dal fatto che migliaia di mistici hanno trasmesso e mostrato queste comprensioni per millenni interi, sia da quello che ormai molte di queste stesse affermazioni siano oggetto di innumerevoli conferme scientifiche.

Ma allora se vado oltre l’apparenza io sono il momento presente? A costo di far venire qualche brivido, e consci del fatto che l’affermazione non fa che sintetizzare una Realtà molto più ricca e complessa, possiamo dire che è così.

Ecco perché tutti gli insegnamenti hanno sempre sostenuto che è così importante essere presenti, essere nel momento presente, essere consapevoli e compagnia bella. Essere nel momento presente significa essere se stessi. Con tutti i turbamenti che questo comporta, perché molto spesso ciò che c’è nel momento presente non ci piace, lo vorremmo diverso, ci provoca frustrazioni.

Ma il momento presente è la nostra vita stessa, anzi è Vita, ed essere allineati con esso è essere allineati profondamente con noi stessi. Il che, neanche a dirlo, reca con sé una pace senza confini.

Vivi respirando – Parte I – Oltre la storia di me

12 Apr

“Si, e… allora?”. Le implicazioni del riconoscerci sono davvero molto estese, in inglese si direbbero life-changing (ti cambiano la vita), ma non necessariamente evidenti sopratutto all’inizio del viaggio vero. Il percorso iniziato riconoscendo consapevolmente chi siamo serve a poter finalmente andare oltre la storia di me che ci siamo costruiti, e che troppo spesso raccontiamo a noi stessi e agli altri.

(Ce) La raccontiamo così convinti che siamo davvero, proprio fatti così, da non voler nemmeno più metterla in discussione per non sentirci stupidi, ma la realtà di noi stessi è infinitamente più vasta di quanto qualunque storia potrebbe mai raccontare, al punto che la conoscenza di sé è un viaggio infinito, in cui il meglio che si possa ottenere è la consapevolezza di quanto poco si sappia. Riprendere contatto con noi stessi inizialmente ci permette di stare semplicemente meglio, perché dal nostro spazio interiore proviene una pace di qualità molto superiore a quella cui siamo abituati – quella che dipende dalla mancanza di fastidi esterni o dalla presenza di cose che ci portano piacere; poi ci porta a muoverci allineati a noi stessi e alla vita che ci circonda, permettendole un fluire armonico. Si, avete ancora bisogno di dare fiducia a queste pagine e arrivare in fondo. Non che stia promettendo nulla, ma per avere almeno una infarinatura di quanto ci aspetta è importante non prestare il fianco al giochino della mente “mbhé?” fino a quando non si siano consolidati gli strumenti per riderne.

Per tornare all’argomento di questo paragrafo: stare con, partire dal, lo spazio di presenza che a quest’ora dovremmo aver riconosciuto consente finalmente di non scegliere più sulla base di pensieri ma di cortocircuitarli e muoverci da noi stessi. So che suona strano affidarsi a quella specie di nulla che abbiamo riconosciuto -anzi che l’autore sostiene- essere noi stessi, e genererà un numero di dubbi considerevole. Né è detto che questo accada fin da subito, ma pian piano dovremmo imparare a distinguere quando ci sentiamo e quando pensiamo di sentirci in un certo modo, e quando ci sentiamo e quando invece pensiamo di fare qualcosa.

Mille volte ci siamo trovati a non sapere che cosa fare, e ci siamo affidati ai pensieri e ai ragionamenti, ma partire da noi stessi ci fa muovere in modo radicalmente diverso, anche se i risultati sembrano errori. Questo assetto non ci impedisce di fare errori, a volte ne abbiamo bisogno per i motivi più disparati, ma eventualmente di capirli e comunque porta con sé l’allinearsi a noi stessi ed alla vita che ci circonda, ma non a sogni o incubi, nostri o di qualcun altro.

Il miglior modo che io conosca di descrivere questa differenza proviene da Osho, un mistico indiano vissuto dal 1931 fino all’inizio del 1990, che sosteneva che solo chi tiene gli occhi chiusi ha il dubbio della scelta, come un cieco ha necessità di provare e tastare con il suo bastone i muri della stanza dove è rinchiuso per trovare la porta. Colui che ha gli occhi aperti non ha quel dubbio, vede dove si trova la porta. Questo non significa che da oggi in poi sarà sufficiente riconnettersi per avere sempre le idee chiare, perché talvolta quando cerchiamo la risposta essa non è ancora giunta, ma ci salvaguarda dal muoverci su basi non allineate a noi stessi.

Vivi respirando – Parte I – Il radicamento nel corpo

4 Apr

Il corpo è il cancello. Questo corpo che sperimentiamo è l’organismo sensoriale di ciò che prima ho chiamato la nostra essenza -ma si potrebbero utilizzare molte altre etichette- che nella sua forma umana è in grado finalmente di riconoscersi, di osservarsi, di fare esperimenti su se stessa e di comprendersi. Essendo il cancello, il punto di ingresso della coscienza nella propria creazione, è molto importante. Infatti noi diamo notevole attenzione ai fenomeni che riguardano il nostro corpo: ce ne prendiamo cura, soffriamo se non sta bene, cerchiamo di arrecargli beneficio in molti modi. Però tipicamente non viviamo davvero il nostro corpo, molto raramente siamo consapevoli di ciò che gli accade, al punto che troppo spesso gli attacchi cardiaci, che prima di diventare davvero pericolosi provocano dolore per molte ore, non vengono nemmeno notati dalle vittime fino a che non arrivano ad essere pericolosi se non letali. Altrettanto sovente tendiamo a torturarlo, nel tentativo di sentirci vivi o nella convinzione che esso ci fa provare dolore.

Diventare consapevoli del corpo è fondamentale per diventare consapevoli, è un altro prerequisito indispensabile. Cosa significa diventare consapevole del proprio corpo, e come si fa? Ho già descritto in estrema sintesi un modo efficace, poco fa nel paragrafo Il Riconoscimento consapevole. Potrebbe sembrare un esercizio sterile a -sopratutto alla mente di- chi legge, eppure è la base assoluta di tutto il viaggio verso di Sé, ne costituisce le fondamenta. Quel metodo è solo uno dei tanti disponibili, e ciascuno può e forse deve trovare il proprio, sia esso una variazione di quello proposto o una alternativa.

Potrei dire che è del tutto sufficiente vivere consapevoli del proprio respiro per vivere da svegli, come lascia intuire il titolo di questo scritto. Se non si è ancora riconosciuto se stessi, seguire il proprio respiro porta senza possibilità di scampo a fare questo “passo”. Se si ha già ricevuto questo dono, tenerlo d’occhio garantisce di essere ciò che si è, di restare sintonizzati, e impedisce di perdersi nuovamente nei vecchi schemi.

Ma fare lavori sul corpo aiuta in questo processo? Si, ma senza il riconoscimento di Sé i progressi potrebbero rivelarsi non sostanziosi né duraturi. E’ pur vero che in persone molto poco in contatto con il proprio corpo potrebbe essere necessario lavorare prima su di esso per potervi “entrare” abbastanza da effettuare il riconoscimento. Ma non deve essere usato come scusa: a mio avviso la probabilità che ci si trovi davvero in una condizione del genere è nel complesso ridotta.

Come dicevamo, ciò che rimane dopo il riconoscimento, potrebbe esser descritto con parole come “un grande silenzio”, “un grande spazio”, “pace”, “presenza”. Non vi siamo per nulla abituati, quindi è frequentissimo che quel simpatico meccanismo generatore di pensieri chiamato mente, “lo” svaluti, cerchi di riprodurre la sensazione o le sensazioni che esso genera, o di appropriarsene. Fa tutto parte del processo. L’importante è riconnettersi al corpo ogni qualvolta ci si renda conto che questo avviene, con pazienza e fiducia. La mente ha creato nel corso della nostra esistenza miliardi di pensieri, quindi non è ragionevole attendersi che smetta di botto e si arrenda al silenzio assordante che si cela dentro di noi. Ma ritornare con l’attenzione nel corpo, e osservare il momento presente con tutto quello che c’è dentro di noi e fuori, ne neutralizza l’impatto. Basta davvero un bel respiro consapevole. Anche se in momenti difficili potrebbe dover essere ripetuto spesso.

Ad essere onesti questo lavoro va fatto -anche perché è possibile farlo solamente- ora. Non c’è alcun bisogno di preoccuparsi di quanto accadrà in futuro.

Vivi respirando – Parte I – Io

2 Apr

Quando vai davvero ad indagare fino in fondo, questo spazio è la tua realtà essenziale. E’ ciò che precede ogni idea di te, ogni manifestazione fisica di te, ogni sensazione. Questo spazio e questa consapevolezza che -sempre con parole imperfette- potrebbe essere anche descritta come l’”Io Sono”, l’Io che precede ogni altra cosa. Attenzione, perché la stessa parola Io ti disconnette dalla realtà dell’Io, e queste descrizioni cercano solo di indicare. Non è possibile ridurre in alcun modo a parole la Realtà, ma nella migliore delle ipotesi dare una indicazione. Come se dovessimo spiegare cos’è l’amore a qualcuno che non lo avesse mai sperimentato: nemmeno qui si può fare molto, eppure indicando certi dettagli si può permettere di notare qualcosa che c’è e c’è sempre stato, ma è passato inosservato o è stato ignorato.  Mai fatto caso al fatto che diverse fra le cose più importanti della nostra vita hanno questa caratteristica di invisibilità e di descrivibilità decisamente scarsa? Amicizia e amore sono le due principali.

 

Qualsiasi tentativo -e ne avverranno moltissimi- di capire, trasformare in una idea o in una struttura di comprensione, di impossessarsi di questa consapevolezza di se, te la fa perdere. Qualcuno descrisse questi inevitabili e ripetuti tentativi come quelli di una mano che cerca di afferrare l’aria, e che chiudendosi la fa uscire inevitabilmente dalla propria portata.

Vale la pena notare che questa apertura, questo sentire, sono spesso descritti come “essere presente” da chi ha praticato meditazione o attività simili. Una delle conseguenze di queste pratiche è che una volta che la abbiamo sperimentata in qualche modo acquisiamo la capacità di notare quando non siamo presenti. Purtroppo però invece di notarlo semplicemente, e altrettanto semplicemente restare sintonizzati con il nostro spazio di presenza appena ri-acquisito, di solito elaboriamo immediatamente un pensiero o un giudizio sull’argomento: appare qualcosa come “ecco, vedi, adesso non ero presente”. Quel che succede in questo caso è che la nostra presenza è entrata dalla porta principale, accorgendosi del non “esserci”, per poi esser buttata fuori dalla finestra, da quegli stessi pensieri che discutono di presenza e assenza. Questo dialogo spirituale interiore rientra nella schiera di fenomeni descritti con l’espressione “Ego spirituale”, che è una forma anche più subdola -proprio perché in apparenza saggia- di ego.

Vivi respirando – Parte I – Prove tecniche di Risveglio

26 Mar

La sensazione tipica dopo un esercizio come questo potrebbe essere: forse ho sperimentato qualcosa, ma non sono sicuro. Come faccio a controllare di avere colto davvero chi sono? Sono davvero tante le reazioni al riconoscimento, non credo saprei elencarne nemmeno una frazione. Vanno da una semplice sensazione di “Aha” ai cosiddetti fuochi d’artificio. Arrovellarsi sul tema non serve, anzi potrebbe essere controproducente. Il requisito principale per riconoscere se stessi è infatti essere del tutto rilassati, e il questionare della mente ovviamente non lo facilita, anzi.

 

Tenere presente alcuni dei riflessi che il riconoscimento di se provoca potrebbe comunque essere utile. Le sensazioni che trovate descritte qui non sono prove dell’avvenuto risveglio, ma potrebbero esserne dei sottoprodotti, quasi degli effetti collaterali. Non cercate in alcun modo di trattenerle, sono e restano delle sensazioni, soggette ad andare e venire a loro piacimento.

 

Fra le sensazioni potremmo sperimentare:

  • una strana lucidità;
  • una pace notevole;
  • una felicità, quasi inspiegabile;
  • la percezione della vitalità del nostro corpo (come quando abbiamo appena finito di fare uno sforzo o dello sport);
  • un certo smarrimento;
  • euforia;
  • pianto, sia come commozione che di gioia;
  • un silenzio pazzesco, anche in presenza di rumori esterni;

La lista potrebbe davvero essere lunghissima.

 

E’ necessario tenere presente che tanto più si è già consapevoli del proprio spazio di presenza, tanto più frequentemente questo è stato già sperimentato, tanto minori saranno gli effetti speciali o i fuochi d’artificio.

 

Forse una sola manifestazione, che potreste aver già a disposizione, è affidabile. Si tratta della capacità di essere in ascolto con tutto te stesso/a. Non il classico essere in ascolto, in attesa di qualcosa, con sotto quella corrente irrequieta che ci accompagna quasi sempre. Questo essere totalmente in ascolto si potrebbe descrivere -ma ancora una volta prendete queste parole come etichette o cartelli, non come concetti da capire o interpretare, né come obiettivo da raggiungere- come consapevolezza dello spazio dentro il quale accadono i suoni, le sensazioni, le immagini di cui siete testimoni. Uno spazio e basta. Uno spazio dentro il quale non si può trovare, senza far ricorso ai pensieri, un soggetto che ne sia consapevole.

Non si dovrebbe trattare di una novità. Infatti questo è lo spazio che un po’ conosciamo, e che avvertiamo tutti: “avviene” in molte situazioni comuni, specialmente quando siamo impegnati nelle attività di cui abbiamo parlato in precedenza, ma anche in tante altre. La creatività si manifesta sempre proprio quando sappiamo essere in ascolto, ma anche la guida di una autovettura o di una moto tende a farcelo notare. In massima parte se ne percepiscono i benefici ma non si è direttamente consapevoli del perché. Fra l’altro è possibile fare caso al fatto che questa presenza è sempre stata qui, è l’unica vera costante di tutta la nostra vita, è quel “qualcosa” che è stato testimone di tutti gli accadimenti, le sensazioni, senza eccezioni.

Vivi Respirando – Parte 1 – Il Riconoscimento consapevole

23 Mar

Come accennavo in precedenza in realtà siamo noi stessi da sempre. Dopo questa apparente ovvietà, va rilevato che di solito non siamo per nulla consapevoli di noi stessi. Ma come, l’uomo non è l’unico essere intrinsecamente capace di avere consapevolezza di se? E’ capace di avere pensieri e convinzioni su di se, a volte alquanto contorti se non erronei, ma paradossalmente è l’unico essere vivente che non abbia una percezione accurata e continuativa di se. Questo accade perché di solito le sue energie sono in massima parte concentrate in quella parte del corpo, per esser più precisi del cervello, preposta alla gestione dei pensieri, anche conosciuta come mente. Non che qualcuno non abbia una discreta o anche buona consapevolezza di se, ma sono persone che rappresentano decisamente eccezioni e non certo la regola.

Parlando di consapevolezza di se non mi riferisco ai pensieri su di se, ma al sentire se stessi intesi come “lo spazio” (usiamo questa dizione, è la migliore che le parole consentano) che percepisce tutto ciò che accade, come il soggetto che percepisce. Quindi, ancora, non alla mente che trasforma in pensieri tutto ciò che vede ma al soggetto dentro il quale accade anche la mente con i suoi pensieri. Non hai mai notato di poter notare i pensieri?

Tipicamente quando noti un pensiero di solito ne costruisci subito un altro, come “ma tu guarda che diavolo mi viene in mente”, altrimenti sapresti che quel pensiero assomiglia a una nuvola che passa nel cielo, lasciando il cielo del tutto intoccato. Se poi fossi profondamente consapevole di te, sapresti che nessun pensiero può toccare il cielo o alterarlo, e probabilmente saresti in pace con te stesso. “Eh, d’accordo, ma poi succede questo e quello e io perdo le staffe e la mia pace….” Sicuro? Non è che magari qualcosa dentro di te interpreta ciò che accade come bello/brutto, buono/cattivo, possibile fonte di piacere o dolore e come conseguenza di questa interpretazione ti giochi la pace? Anche questo qualcosa può essere notato e identificato, come un pensiero un po’ più sofisticato. Se potessimo guardare al nostro cervello come a un computer lo chiamerei un “programmino”.

Ma prima di aggiungere spiegazioni, è ora di guardare e cercare di sperimentare il Riconoscimento di Se. Prova a seguirmi ora. Ciò che segue richiede tutta la tua attenzione, quindi assicurati di avere campo libero per un tempo sufficiente.

Il riconoscimento è qualcosa di molto differente da quel che credi o ti aspetti. E’ così… ovvio… da un certo punto di vista, che è estremamente facile non… riconoscerlo. Eppure diventarne consapevoli ha conseguenze vastissime. Anche se a prima vista può non sembrare così.

Ora: non esiste alcuna garanzia che la semplice lettura ti permetta di riconoscere chi sei. In fondo se ti è sfuggito finora, un motivo ci sarà. Ma è così ovvio, che è del tutto possibile e lo è adesso. Un requisito fondamentale è essere totalmente dedicato a questo.

Per favore segui queste poche istruzioni. Potrebbe essere una buona idea, se leggerle ti provocasse difficoltà, registrarle con la tua voce e provare a riconoscere ascoltandole.

Mettiti comodo, con la schiena dritta ma rilassata, se riesci seduto. Braccia e gambe non incrociate, il più rilassate possibile.

Diventa consapevole del, cioè dedica tutta la tua attenzione a percepire il, contatto con ciò su cui sei seduto/a o sdraiato/a.

Mantenendo una parte della tua attenzione al contatto del tuo corpo con i suoi sostegni, ora stringi a pugno e poi rilascia le mani. Fallo diverse volte, facendo attenzione alle sensazioni corporee che questi movimenti ti provocano. Datti un pochino di tempo.

Ora continua a mantenere la attenzione nel corpo, sia al contatto con i suoi sostegni che a qualsiasi sensazione tu noti. Non farti aiutare da pensieri. Se passano notali ma non commentarli. Riporta l’attenzione al corpo e tienila lì.

Ora comincia a fare attenzione al tuo respiro. Segui i tuoi respiri, segui il percorso dell’aria mentre entra ed esce, guarda o meglio senti fino a dove scende, nota se è continuativo o se magari c’è una pausa fra inspirazione ed espirazione.

Ora ti chiederò di fare una domanda a te stesso.

Ma pretendo la risposta in un istante.

Per favore fatti la domanda “Chi sono io?”

Mantieni l’attenzione sul corpo e sul respiro. Non fare caso ai pensieri che possono arrivare, nessuno di loro contiene questa risposta.

Ciò che cerchi non è nemmeno una vera e propria sensazione, eppure se ti riconosci poi è…. ovvio.

Ripeti queste istruzioni più di una volta. Controlla e ricontrolla.

Da un certo punto di vista è davvero del tutto ovvia la “sensazione” che dovresti aver “provato”, da un altro è molto molto frequente ingannarsi. Quindi prova parecchie volte.

Quando fui guidato la prima volta al riconoscimento mi ci vollero quasi 20 giorni, ma mancava la connessione con il corpo, che la dovrebbe rendere molto più semplice. Ricorda, il riconoscimento può solo avvenire ora. Non esiste nessun altro momento in cui sia possibile. Ma su questo argomento torneremo presto.

Da ultimo ma non per questo meno importante: ascolta te stesso. Se non ti senti, non insistere, potrebbe anche non essere il momento giusto. In questo caso porta con te, se puoi, la domanda “Chi sono io?”, e quando ti senti dedicale qualche minuto con la procedura che ho appena raccontato.

Vivi Respirando – Parte 1 – “Wake up first”

20 Mar

Non so come mai non abbia trovato finora nessuno che lo dica come lo ho compreso io. Forse ho capito male, eppure tutta la mia esperienza in questa ricerca sembra confermare che esiste un velo, impalpabile eppure piuttosto efficiente, davanti ai nostri occhi.

Fino a quando tale velo non viene strappato, la ricerca vera non comincia. Non che prima noi non ricerchiamo, anzi. Ma giriamo a vuoto. L’effetto che la ricerca ha, prima di strappare il velo di cui parlo, tende a essere poco più che un palliativo: stiamo bene quando meditiamo (o quando applichiamo il nostro metodo personale), ma se qualcuno poi ci taglia la strada i benefici della meditazione come di qualsiasi altro metodo sembrano svanire, e il “mostro” dentro di noi è di nuovo padrone del campo, lasciandoci piuttosto scoraggiati.

Strappare il velo significa riconoscere chi siamo veramente. Non capire chi siamo, proprio ri-conoscere. La metafora dello strappare il velo è chiamata in gergo spirituale Risveglio. Da non confondersi con Illuminazione o Liberazione. Il risveglio ne è una precondizione essenziale.

Molti hanno descritto il Risveglio in un modo -a mio modestissimo avviso- che assomigliava tremendamente all’Illuminazione, confondendo le acque non poco. In realtà il risveglio potrebbe essere paragonato alla rottura insanabile di una diga, mentre l’illuminazione corrisponde al suo inesorabile franare. Il primo rende il secondo solo una questione di tempo, ma potrebbe essere molto, e anche se la diga non svolge più la sua funzione come si deve, può comunque impedire a gran parte dell’acqua di scorrere.

Altri hanno parlato dell’illuminazione istantanea, come se la diga esplodesse. Non ho mai conosciuto nessuno che la abbia sperimentata così. Le descrizioni di cui ho sentito parlare, in lungo e in largo, contenevano praticamente sempre periodi più o meno estesi di forti assestamenti, come se la demolizione della vecchia diga richiedesse qualcosa di più del primo botto. Almeno un insegnante di livello eccelso, Adyashanti, suffraga la mia impressione con il suo esempio personale e una lunga esperienza di insegnamento a persone risvegliate. Con ciò non escludo, naturalmente, che non possa essere accaduto o accadere a qualcuno.

Fino al secolo scorso gli insegnamenti non prevedevano il Risveglio all’inizio del viaggio. Veniva fatto sperimentare solo dopo molti anni di pratica spirituale. Poi è arrivato Ramana Maharshi, il primo guru di calibro pesante che ha puntato direttamente al riconoscimento, mostrando due cose: primo, è necessario riconoscere chi sei; secondo, è necessario essere chi sei. Ramana mostrava con la propria presenza e l’esempio come questi concetti, peraltro antichi e per certi versi ampiamente noti, non dovessero essere elaborati a livello mentale ma sperimentati direttamente, qui e ora. Dove stava la differenza? Era ed è ancora abissale: sperimentare il proprio riconoscimento non è avere un’idea più accurata di se, è sperimentare Il Sè.

Da Ramana in poi gli insegnamenti si sono fatti per certi versi più confusi, dato che i vecchi non erano da buttar via ma il nuovo sembrava un po’ tosto da assimilare. Comunque dopo di lui persone come Punjaji, Gangaji, Dolano hanno tramandato nei loro modi l’approccio “prima svegliati” (e poi ne parliamo), ma la “novità” ha segnato gli insegnamenti di quasi tutti i maestri di questa ricerca.

Con questi appunti cerco di chiarire alcuni aspetti sui quali mi sono incagliato a lungo, e per i quali ho dovuto -anche dopo il mio primo riconoscimento- cercare molto. Non che il viaggio sia terminato, ma mi sento di condividere quanto ho compreso fin qui, non sia mai che serva a qualcun altro.

Sicuro che faccia per te?

17 Mar

La domanda del titolo di questo paragrafo non è retorica. Non credo di fare una forzatura se la paragono alla domanda, restata negli annali della cinematografia, “Pillola rossa o pillola Blu?” fatta da Morpheus a Neo nel film Matrix, o alla insegna “Perdete ogni speranza o voi ch’entrate” posta sulla porta dell’inferno dantesco.

Si tratta di una strada senza ritorno, principalmente perché questo è il ritorno. Se leggete queste righe è possibile, per usare una vecchia metafora Zen, che la vostra testa non sia ancora dentro le fauci della tigre, ma se così non fosse ecco qualche avviso ai naviganti.

 

La strada del ritorno a casa è obbligata. Nasciamo perfettamente a casa, e vi facciamo ritorno quando il corpo che conosciamo come “io” muore. Ritornare a casa mentre il corpo è in vita è però un percorso particolare, che -da un certo punto di vista- prevede di affrontare letteralmente tutte le paure che albergano in noi, e questo non è sempre piacevole. Non è neanche terribile, intendiamoci, ma richiede una intenzione ferma, la disponibilità a stare del tutto sulle proprie gambe, estrema onestà verso se stessi, un sacco di apertura, e…. fede. Curioso usare questa parola, ma non ne conosco di più adeguate. Non fede in qualcosa o qualcun altro, fede e basta, fiducia allo stato puro. Perché è “casa”, al di là di ogni possibile dubbio, ma i dubbi potranno essere molti.

 

Fra l’altro non è dato di fermarsi a metà. Una volta intrapreso, il percorso vi porterà per forza verso la sua destinazione finale. Meglio esserne ben consapevoli. Se dovessi usare una metafora (ne userò tante, conviene abituarsi), direi che si tratta di un bel salto. Una volta fatto non c’è modo di ritornare su.

 

Nel caso in cui abbiate già intrapreso questo percorso, forse troverete qui qualche indicazione utile.

Se invece non siete sicuri di ciò che fate, lasciate perdere. Qui conviene entrare solo se si hanno perso le speranze, se la sofferenza del solito modo di vivere è decisamente troppa, o se si ha già la fede e la consapevolezza che l’esistenza si prende davvero cura di noi.

 

E’ una strada di verità, non di speranze, per queste ultime non c’è spazio. Porta a indagare e scoprire direttamente ciò che è vero e indiscutibile per chi legge, e non si conclude fino a quando anche l’ultima delle credenze, delle idee false cui crediamo o abbiamo creduto, non sia stata polverizzata.

 

L’ultimo elemento, ma non meno importante: qui si deve essere pronti a rinunciare agli incubi, e rinuncerebbe volentieri chiunque, ma anche ai sogni. Non si tratta di sognare qualcosa di più bello, ma di svegliarsi. Non è la stessa cosa.

 

Quindi adesso fate qualche bel respiro, dedicatevi a osservare le sensazioni che vi dà il corpo mentre li fate, e sentite (ho detto sentite, non pensate o ragionate!) se avete davvero voglia di entrare qui. Gli avvisi sono terminati, e se volete ancora leggere lo fate a vostro rischio e pericolo.

Parte 1 – La Zona del Risveglio — A cosa serve la ricerca spirituale?

12 Mar

A… stare bene!

La ricerca spirituale è la risposta più ovvia al malessere interiore che attanaglia la maggior parte degli esseri umani. Non è un caso. E non è un caso che fra coloro che sono davvero in pace con se stessi e con la vita vi sia quasi solo chi ha svolto, in modo o nell’altro, un tot di ricerca.

Come accennato nella introduzione, queste parole potranno suonare male a molti, ma sono dedicate a chi a malapena si è reso conto di avere un problema, non a chi lo ha già affrontato e magari risolto in parte o del tutto.

Perché aiuta a stare bene? La risposta risiede nel fatto che la nostra realtà più profonda viene trascurata, a volte molto se non completamente. Questa parte, che chiameremo spirituale, è ciò che ci dà la sensazione di essere “a casa”. La conosciamo benissimo, la ricerchiamo di continuo, ma inconsciamente e con metodi non sempre validi, così che finisce per essere interpretata come una esperienza, e non la nostra realtà principale. Chi legge potrebbe trarre beneficio dalla meditazione o dallo yoga, da un animale domestico, dalla musica in tutte le sue espressioni, dal rapporto con la natura, dal guardare le stelle in una sera d’estate, il mare, la montagna, da uno sport, dalla ricerca di sensazioni estreme, dall’abuso di cibo, alcol o altre sostanze, dall’interazione con i bambini, da hobby o attività di volontariato, dal sesso o dalla ricerca di relazioni sempre nuove, e la lista potrebbe andare avanti a lungo, includendo naturalmente le versioni compulsive di questi metodi. Si può dire che andiamo cercando noi stessi, e per ritrovarci siamo o saremmo disposti a fare qualsiasi cosa.

Il paradosso è che nel cercare di stare bene con uno dei metodi appena menzionati in realtà ci impediamo di rimanere stabilmente dentro noi stessi, “a casa”. Avviene sia perché ci illudiamo di trarre quel beneficio grazie alla nostra attività o alla situazione contingente, attribuendo il benessere a un fattore esterno a volte al di fuori del nostro controllo, dall’altro perché non notiamo che il fattore esterno di volta in volta utilizzato rimuove semplicemente l’ostacolo che ci impedisce di godere di noi stessi.

Facendo per un momento un salto in avanti potremmo dire che quella sensazione straordinaria di benessere che andiamo cercando, e che siamo abituati a chiamare piacere, in realtà è sempre disponibile dentro di noi. Inteso in senso letterale. Il che spiega come persone speciali, che spesso l’umanità ha venerato, hanno saputo trovare la pace -e magari condividerla- anche in situazioni come i lager nazisti (Anna Frank) o inchiodati su una croce (Gesù Cristo), o di assoluta povertà (San Francesco d’Assisi) ispirando poi legioni di esseri umani per molte generazioni.