Il concetto di corpo di dolore è stato coniato da Eckhart Tolle, forse l’insegnante vivente principale e più conosciuto del pianeta. Descrive con estrema efficacia una delle parti del “me” come lo abbiamo vissuto fino a prima di riconoscere chi siamo, quella parte che emerge quando per qualche motivo la presenza non è a un livello sufficiente e sembra quasi dirottare il “me”, portandolo a fare cose di cui tendiamo a pentirci molto in fretta.
Eckhart ha mostrato con chiarezza come il nostro perdere lucidità porti al sopravvento di una parte di noi, che lui ha chiamato il corpo di dolore, che sembra avere priorità spesso anche in conflitto con la nostra coscienza e con i nostri pensieri. Vale la pena ricorrere a qualche esempio.
Avete presente quelle situazioni nelle quali sappiamo benissimo che stiamo per dire qualcosa che il nostro interlocutore prenderà male, che sia perché ne soffrirà (e noi ci stiamo di fatto comportando da carnefici) o perché scatenerà in lui sensazioni e reazioni negative (magari ci tiriamo proprio la zappa sui piedi), eppure la diciamo lo stesso?
Un’altra situazione tipica tende a verificarsi durante la guida, nel traffico. Appena qualcuno fa qualcosa che non rientra nel nostro schema “ci si comporta così” si presentano varie versioni del corpo di dolore, da quella che parte in quarta alla minima presunta offesa, come se volesse punire l’automobilista che si è reso colpevole di chissà quale offesa mortale, a quella che si mette a discutere con il guidatore fellone (naturalmente senza che costui possa controbattere né tanto meno sentire quel che ci viene fuori), passando per tutte le varianti possibili fra cui la tradizionale selva di insulti e gestacci, evidenti o soffocati dentro di noi.
Non credo sia difficile osservare come in entrambi gli esempi le reazioni descritte vadano invariabilmente e spesso unicamente a nostro discapito. Abbiamo l’impressione di scaricarci di parte dell’emozione negativa, ma in realtà ci intossichiamo per 100, e se ci va di lusso scarichiamo per 30 o 40. Spesso però ci esponiamo anche a rischi e potremmo perfino causare incidenti, diplomatici nel primo esempio, veri e propri nel secondo.
Il punto cruciale qui è vedere realmente che questo avviene dentro di noi, e a volte prenderne coscienza potrebbe causare uno shock. Il secondo punto è sapere che si tratta di un soggetto (probabilmente in psicologia lo chiameremmo alter-ego) piuttosto folle, che sopravvive dentro di noi solo fino a quando la presenza non è sufficiente a farlo svanire. Un terzo punto di notevole importanza consiste nel riconoscere che il corpo di dolore non è per nulla personale. Nel senso che pur apparendo in modalità a volte peculiari e uniche per ciascuno di noi, si tratta dello stesso “animale” che attraversa me e chiunque altro, che si alimenta di sofferenza individuale e collettiva, le cui caratteristiche, per la versione che tocca ciascuno di noi, possono essere certamente state influenzate dal vissuto personale e familiare.
Come si fa a neutralizzare? Vedendolo. Non accorgendosene con il pensiero, ma percependolo con tutto il nostro essere, fino a che non sia scattato l’”aha” che ce ne separa.
Un piccolo inciso: la rappresentazione letteraria tipica del corpo di dolore è il vampiro. Fino a quando è buio -metaforicamente la mancanza di luce è mancanza di presenza- si scatena; non appena sorge il sole -la presenza torna padrona del campo- si deve andare a rintanare in una tomba. Da un punto di vista cinematografico, invece, il personaggio più adatto a dare l’idea del “mostriciattolo” corpo di dolore è Smigol/Gollum, frutto della fantasia di J.R.R.Tolkien e rappresentato magistralmente al cinema ne “Il Signore degli Anelli”. Come molti ricorderanno, si tratta di un mostro dal comportamento bipolare, estremamente servile e codardo oppure altrettanto aggressivo e vile, ma in ultima analisi guidato solo dalla ricerca di dolore, come se quest’ultimo fosse la sua unica ragione di vita, e che non sopporta di esser colto in fallo, cosa che tipicamente lo rende del tutto impotente.
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